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MARCO NEIROTTI

per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno

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Giornalista e scrittore. Al quotidiano La Stampa curatore della rubrica Tuttolibri. Nella sua attività in equilibrio tra giornalismo e letteratura ha scritto, tra gli altri, “Stazione di sosta. Cronaca di un cancro” (Interlinea 2015) in cui narra la cronaca autobiografica della lotta e della vittoria sul cancro, scritta con la forma di un reportage.


 

Qual è per lei il ruolo dell’informazione sul benessere della società?

È fornire strumenti per comprendere senza smodate spinte emotive la società stessa, la sua evoluzione ed inquietudine, le sue possibilità. È fornire la libertà di farsi idee non condizionate. Un ruolo determinante, difficile, pericoloso se svolto male. Sfruttare un fatto per aver successo e orientare reazioni è un crimine morale.

 

Cos’è per lei una buona notizia?

Non è soltanto il buono che fa titolo (trova portafogli pieno e lo restituisce). È l’impasto di umanità, onestà, speranza che vivono in angoli di quella che di per sé è cattiva notizia. La buona notizia è più frequente di quanto crediamo, ma oggi, in un coltivato clima di odio, una persona prosciolta dopo un’indagine scatena urla di vendetta, mentre con un po’ di logica dovrebbe liberare un sospiro di sollievo. Una condanna può essere buona o pessima notizia. Sta a noi farne un passo dell’esistenza, dipende da quanto è ampio lo sguardo.

 

Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?

Può aumentare la fiducia (non però asservendosi a una propaganda). Deve ridurre la conflittualità: raccontando e offrendo inattesi punti di vista. Non è vero che la notizia positiva non piace al pubblico. Non piace all’assuefatta pigrizia dell’Informazione.

 

Qual è il suo contributo per una buona informazione?

Il contributo sta in quanto si è umani e limpidi mentre si comunica. Alla Stampa dal 1978 al 2013 ho raccontato quel che vedevo e non ciò che avrebbe colpito. Dopo giorni nei manicomi criminali non ho narrato i terribili zoo che ci si aspettava, bensì animi vaganti e perfino sorrisi. Nelle cronache, nelle inchieste, nei romanzi ho d’istinto avuto e ho lo sguardo condiviso con Fabrizio De André. Non ho un momento da esibire, ho il bilancio di un “giorno per giorno”, nella scrittura come nei dibattiti.

 

Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?

È l’unico modo nel quale so vivere. Ho avuto un cancro, ho subito una valanga di radioterapia e chemioterapia. Fra gli altri appunti stesi a caldo ho scritto: “Non sto soffrendo per una malattia che uccide, ma per le cure che uccidono la malattia”. C’è una bella differenza. Non si può contagiare o insegnare a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma si può – come fate voi – allenare a sentire dentro di sé che in quel bicchiere, come in una vita, c’è un
controcanto cui guardare con fiducia.


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