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CHIARA GENISIO

per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno

Giornalista e scrittrice. Vicepresidente della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici) e direttore dell’Agenzia Giornali Diocesani del Piemonte. Collabora con Avvenire e altre riviste tra cui Vita Pastorale, Maria con Te, Credere, Nuovo Progetto del Sermig. Responsabile dell’Ufficio regionale per la Pastorale delle comunicazioni sociali di Piemonte e Valle d’Aosta, presidente dell’associazione dei giornalisti cattolici, Ucsi-Piemonte e del Centro studi Giorgio Catti. Docente di comunicazione sociale e giornalismo.

 


 


Cos’è per lei una buona notizia?

Le buone notizie sono quelle che tirano fuori il meglio dalle persone e aiutano la società a migliorarsi. La buona notizia è verità o chi fa il nostro mestiere raccontando ció che accade con serenità e speranza, senza dare spazio al pettegolezzo. Di buone notizie ce ne sono davvero molte, credetemi. Ce ne sono molte più di quelle che ci arrivano: ce ne sono molte di più rispetto a quelle negative. Solo che faticano ad emergere. Un esempio: un’associazione che da vita a un progetto di video progetti per intrattenere i bambini nelle camere operatore; oppure la storia di Joy, che riesce a uscire dalla tratta e ora frequenta l’università per diventare mediatrice. Notizie di questo tipo, fortunatamente, ce ne sono molte. Ma faticano ad arrivarci.


Qual è per lei il ruolo dell’informazione nel benessere della società?

Il ruolo dell’informazione è fondamentale: non esiste società democratica senza libera informazione, non c’è benessere senza democrazia. Oggi tuttavia paghiamo amaramente il prezzo di una crisi economica del nostro settore: sta diminuendo pericolosamente la professionalità a causa di condizioni retributive troppo restrittive e giornalisti ed editori sono in affanno. Il risultato è che spesso una testata rincorre il lato economico più che l’interesse del lettore che, ricordiamolo, è il nostro unico padrone. L’informazione non può essere gratis e chi ci lavora deve godere di condizioni dignitose. Ed il rischio oggi è che la categoria perda credibilità e che sia sempre meno punto di riferimento per chi legge.

 

Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?

La cosa fondamentale è riuscire a trovare le parole giuste per parlare di cose altamente divisive senza infiammare gli animi delle persone con odio e paure. Bene e male, buono e cattivo sono categorie onnipresenti  ma il giornalista deve porsi nel mezzo per riuscire, con la sua narrazione a aumentare la fiducia e a ridurre la conflittualità. Ora stiamo vivendo un momento di guerra e queste dinamiche sono molto evidenti: c’è chi butta continuamente benzina sul fuoco, ma c’è anche chi riesce a parlare della guerra facendola comprendere.

 

Qual è il suo contributo per una buona informazione?

Questo dovrebbero dirmelo gli ascoltatori e i lettori. Ma posso affermare che quello che ho detto fin qui, lo metto anche in pratica. Quando si è giornalisti lo si è sempre, non solo 8 ore al giorno: il mio modo di comunicare è sempre basato sul rispetto dell’altro, sull’uso di un linguaggio che non sia partigiano dell’informazione, ascolto e non impongo il mio pensiero, do voce agli altri.

 

Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?

Ci ho pensato molto ultimamente. Non è una cosa facile da spiegare, ma diciamo che per me, come giornalista credente, significa cercare ogni giorno la speranza. Attraverso le mie parole deve passare questa visione del mondo: può diventare un posto migliore e posso fare qualcosa per renderlo tale.

 


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