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MILENA BOCCADORO

per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno

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Giornalista professionista. In Rai dal 1986, è capo servizio della redazione di Torino. Si occupa principalmente di temi sociali e ambiente. Dal 2011 fa parte del Direttivo dell’associazione SeNonOraQuando?. Tra i progetti a cui ha collaborato “Donne con la A” per un corretto uso del femminile anche nell’amministrazione pubblica realizzato insieme all’Università di Torino, “Potere alla Parola” con studenti delle medie e delle superiori in collaborazione con il Salone del Libro.


 

Qual è per lei il ruolo dell’informazione sul benessere della società?

È un ruolo molto importante, ma per agire sul benessere della società deve essere una buona informazione. E soprattutto in questo periodo mi domando se stiamo facendo una buona informazione. Il mondo della rete fa sì che questo flusso informativo non sia facilmente controllabile. Il giornalista è la persona che deve controllare le fonti, ma il controllo della congruità delle fonti viene a volte tralasciato. Il flusso informativo andrebbe regolato per distinguere e per evitare il rumore di fondo.

Cos’è per lei una buona notizia?

La notizia non è in sé buona o cattiva.
Bisogna tornare chiedersi che cos’è una notizia. La notizia non è necessariamente quella catastrofica e dovremmo anche superare il concetto delle buone notizie relegate in una sezione a parte, invece che essere inserite nel flusso informativo. Invitare a riflettere sulle buone notizie è utile per riflettere sulla notiziabilità dei fatti, sul motivo per cui si sceglie una notizia o l’altra.

Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?

Sì, ma non è così interiorizzato, dovremmo superare le parole gridate e stereotipate. Soprattutto in Italia il giornalismo mainstream fomenta le partigianerie e non aiuta il dialogo. Ci sono contrapposizioni sempre più potenti, invece dovremmo riuscire con parole pacate a dare la possibilità di capire la realtà che ci circonda e non solo per decidere se stare da una parte o dall’altra.

Il giornalismo deve aiutare le persone a conoscere la storia e i fatti per capire la realtà e farsi un’idea propria,
dovrebbe dare strumenti per capire e comprendere e prendere di conseguenza posizione. Quello che vedo è che non si aiuta in questo senso, non sempre si riesce ad alimentare le comprensioni dei fatti ma si alimenta un’idea contro un’altra.

Qual è il suo contributo per una buona informazione? 

Non ho mai pensato che ci sia oggettività dell’informazione. Qualsiasi racconto è soggettivo e parte della mia storia e dalla mia esperienza. Io cerco sempre di capire a fondo quello che devo raccontare e raccontarlo nel modo più onesto possibile, cercando di usare le parole più neutre possibili. È inevitabile trasmettere quello che si pensa della storia che si racconta, ma con la comprensione e attenendosi ai fatti, si raccontano meglio.

Io ho scelto spesso di raccontare persone e storie di persone in difficoltà, che nonostante questo sono riuscite ad uscire dall’angolo, storie di associazionismo, di donne, di storie con un risvolto sociale, su cosa sta succedendo nella società e come sta cambiando. Se guardiamo la società con gli occhi pieni di stereotipi ci viene difficile capire e uscire dalle frasi fatte nella narrazione. E io tengo bene in mente questo principio, ogni volta che inizio a scrivere e raccontare una nuova storia. Quello che si deve superare è la pigrizia mentale con cui si affrontano i temi: ci vuole una riflessione individuale molto forte e lasciarsi trasportare dal flusso.

L’informazione cambia e c’è una continua riflessione sulle parole da usare nel giornalismo, basti pensare al linguaggio quando si parla di violenza sulle donne. Ora sarebbe sanzionabile scrivere “l’ha uccisa per amore”, anche se è stato dichiarato da una fonte diretta. Ora grazie alle battaglie e a nuove sensibilità di tante giornaliste ci sono cose che non si possono più scrivere. Per fare un buon giornalismo, ci si allena con orecchie attente e cuore aperto, per capire che un titolo o le parole possono ferire e fare danno. I giornalisti italiani si sono dati negli ultimi 10-15 anni carte molto importanti (la Carta di Venezia sulle donne, la Carta di Assisi sui bambini, la Carta di Roma sui migranti). Tutta la categoria è portata a vigilare sulle parole che si usano, meno verve e più comprensione.

Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?

Con la denuncia di un problema si può aiutare a farlo conoscere e superarlo, non arrestarsi al problema in sé, magari triste e luttuoso, ma cercare di capire perché è accaduto e trovare una strada per un miglioramento. Torno al tema della violenza sulle donne, forse sarebbe il caso capire quali sono i meccanismi che portano gli uomini
alla violenza, che tipo di aiuti sociali si possono mettere in campo e dove sono le radici culturali della violenza. Non bastano i centri antiviolenza e di sostegno alle vittime, ma serve capire l’origine del problema e indicare la
strada.


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