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RUBEN RAZZANTE

per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno

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Docente di diritto della comunicazione e diritto dell’informazione presso l’Università Cattolica di Milano e presso il master di giornalismo dell’Università LUMSA di Roma. Nominato dal II Governo Conte, esperto dell’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid 19. Ha scritto diversi manuali sul diritto dell’informazione e fondato il portale dirittodellinformazione.it che raccoglie contributi sulla qualità dell’informazione e sulla tutela dei diritti in Rete.


 

Qual è il ruolo dell’informazione sul benessere della società?

Il ruolo dell’informazione è decisivo, ancor di più da quando c’è la Rete. Con la figura del prosumer (il destinatario di beni e di servizi che non si limita al ruolo passivo di consumatore ma partecipa attivamente alle diverse fasi del processo produttivo, ndr), ciascuno di noi non è più destinatario passivo di informazioni confezionate da altri ma è produttore e consumatore di informazioni. Oggi ciascuno di noi è protagonista del mondo dell’informazione. Pertanto ognuno può, in qualche misura, contribuire a migliorare l’ecosistema digitale, non diffondere fake news e notizie che possano disorientare, disinformare l’opinione pubblica. L’informazione è un bene pubblico, un bene che deve essere a disposizione di tutti ed è un bene fondamentale per poter esercitare tutti gli altri diritti che la Costituzione e le leggi ci garantiscono. Percepire questo valore strategico dell’informazione è dunque fondamentale: non un’attività fine a se stessa ma un volano per la realizzazione individuale e sociale delle persone.

 

Che cos’è una buona notizia?

Le buone notizie sono di molti tipi ed è difficile dare una definizione inclusiva che le contenga tutte.

Credo che innanzitutto ci sia bisogno di dare più diffusione alle buone notizie, che a mio avviso sono di gran lunga più numerose di quelle negative ma vengono valorizzate in modo sbagliato o non vengono affatto valorizzate. Anche quel che può sembrare banale o scontato (come una mamma che si occupa premurosamente dei suoi figli, oppure qualcuno che fa beneficenza in silenzio e senza sbandierarlo ai quattro venti), tutto ciò che documenta un’umanità profonda che caratterizza la gran parte delle persone, dovrebbe trovare maggiore sbocco nel mondo dell’informazione.

Il rilievo del negativo nei media è sicuramente maggiore (sappiamo tutti che fa più notizia la cattiva notizia di quella buona) ma credo che raccontare tutto il buono che c’è, negli individui e nelle comunità organizzate sui territori, sia il primo passo per cambiare la cultura dell’informazione pubblica e affermare la necessità di valorizzare maggiormente le buone notizie. Allora serve impegnarsi per riequilibrare l’agenda dei temi e fare in modo che queste buone notizie abbiano piena dignità nel mondo dell’informazione affinché qualsiasi buona notizia, capace di trasmettere un supplemento di fiducia nell’opinione pubblica, sia ben accetta. Le buone notizie non devono essere forzate ma a mio avviso basterebbe iniziare a raccontare la realtà in tutte le sue sfaccettature per far emergere che quelle prevalenti sono quelle buone, anche se purtroppo sembrerebbe il contrario.

 

Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e per ridurre la conflittualità?

Dovrebbe essere così, ma credo che purtroppo al momento non lo sia. Faccio proprio un riferimento alla situazione che stiamo vivendo. In un’intervista pubblicata sul quotidiano “Il dubbio” ho analizzato il ruolo dei giornalisti in questi mesi di pandemia: ciò che ho riscontrato è una cesura tra quello che è successo nella prima fase dell’emergenza e quello che sta succedendo oggi, ad inizio autunno. A marzo e aprile i giornalisti ci hanno consentito di toccare con mano la gravità innegabile di quella situazione, lavorando in prima linea, rischiando in prima persona dai luoghi della sofferenza e del contagio e lavorando con grandi difficoltà logistiche. Oggi (27 ottobre, ndr) la situazione è cambiata e i giornalisti stanno cavalcando troppo l’onda sensazionalistica, favorendo il terrorismo mediatico e disincentivando la fiducia nel futuro e nel superamento della malattia. Negli ultimi mesi l’informazione è venuta meno al compito di contribuire ad alimentare un circuito virtuoso di fiducia e di responsabilità per puntare tutto sul sensazionalismo, sulla spettacolarizzazione, sulla drammatizzazione, aspetti che favoriscono l’eccesso opposto, cioè il negazionismo e tutto ciò che esso cela. Credo che sarebbe giusto che l’informazione divenisse uno strumento di fiducia, di crescita, di equilibrio sociale e di miglioramento anche del rapporto tra cittadino e istituzioni. In generale possiamo dire che il giornalismo realizza la funzione di aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità se applica correttamente i principi deontologici quali il rispetto della verità dei fatti, il rispetto della dignità della persona, la tutela della privacy, la difesa dell’onore e della reputazione delle persone. Tutti principi sanciti nel “Testo unico dei doveri del giornalista” che il giornalismo stesso si è dato per rendere credibile la sua missione e che credo che tutti i giornalisti dovrebbero rispettare.

 

Qual è il suo contributo per una buona informazione?

Penso di contribuire attraverso la formazione (sia per mezzo dei corsi che tengo agli studenti in università, che ai giornalisti su incarico degli ordini regionali), ottenendo tantissimi riscontri di persone che realizzano una buona informazione rispettosa di tutti quei principi che ho appena citato. Cerco di trasmettere, attraverso la formazione e le mie pubblicazioni, un approccio di neutralità ai contenuti informativi. Questo mi ha portato a fondare il portale dirittodellinformazione.it le cui finalità sono l’approccio ai temi della cronaca con spirito assolutamente neutrale e imparziale e la diffusione di contenuti del diritto dell’informazione. Quest’ultimo tema è generalmente trattato solo dagli addetti ai lavori ma può essere reso accessibile a tutti se trasmesso con un linguaggio semplice e un taglio divulgativo. Faccio un esempio: la tutela dei nostri diritti in rete non passa solo attraverso i magistrati, gli avvocati e gli operatori del diritto ma ciascuno di noi può tutelare la sua identità virtuale attraverso l’auto responsabilizzazione e l’autodisciplina. Sul portale tutti questi temi vengono affrontati quotidianamente da me e dalla mia squadra di collaboratori perché riteniamo che sia una sfida importante: questo è il nostro contributo alla buona informazione.

 

Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?

Vuol dire rendersi conto che siamo persone fortunate per tante ragioni: lo stare al mondo, il poter lavorare, l’impiegare proficuamente il proprio tempo, l’essere circondati da affetti. Guardare il bicchiere mezzo pieno vuol dire trasformare le difficoltà in ulteriori opportunità di crescita. Dal negativo può sempre nascere il positivo, come in questa pandemia, che è oggettivamente una situazione drammatica e tragica: forse ne può nascere una società con meno di disuguaglianze, con meno ingiustizie, con più meritocrazia, con più libertà di mercato, con più libertà di iniziativa economica privata. Ecco, vedere il bicchiere mezzo pieno significa proprio cercare, fin da subito, frugando nel cestino del negativo, quelle cose positive che possono aiutarci a essere migliori, a vivere meglio.


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