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CHIARA GIACCARDI

per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno

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Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige la rivista Comunicazioni Sociali. Journal of Media, Performing Arts and Cultural Studies. Membro della Pontificia Accademia per la Vita. Attualmente direttore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sulla Famiglia del Ministero. Collabora con Avvenire ed è membro del comitato editoriale di Donne Chiesa Mondo (supplemento mensile dell’Osservatore Romano).


Qual è per lei il ruolo dell’informazione sul benessere della società?

Intanto credo sia importante concordare su una definizione di informazione, il cui significato è tutt’altro che scontato. Quando parliamo di informazione abbiamo in mente la trasmissione di notizie, la diffusione di contenuti, ma io credo che l’informazione sia molto più di questo. L’idea di informazione classica, basata su un modello tra l’informatica e l’ingegneria delle telecomunicazioni, è meccanicistica e dunque riduttiva, perché la comunicazione fra gli esseri umani è molto più articolata: non si tratta solo di far transitare contenuti, ma di entrare in relazione, di ridurre le distanze, e non soltanto attraverso le parole.

Il ruolo dell’informazione perciò è enorme, perché noi siamo esseri e relazionali e comunicativi: comunicare è costitutivo della nostra identità, non una funzione tra le tante. Dentro questa cornice più ampia, in-formare etimologicamente significa “dare forma al mondo”, e il modo in cui diamo forma al mondo da forma anche a noi stessi. Un dare forma capace di aumentare o ridurre aspetti quali le distanze, il disordine (non sempre più
informazione vuol dire più chiarezza), la frammentazione.

Il ruolo dell’informazione, in quanto modo di dare forma al mondo e quindi a se stessi, diviene allora cruciale.

 

Cos’è per lei una buona notizia?

Una buona notizia non è solo un contenuto buono e vero. A mio avviso non possiamo ridurre una buona notizia al suo contenuto; una buona notizia è una notizia consapevole della propria parzialità, che la dichiara.

Ogni notizia non è infatti un riflesso del mondo, ma un discorso sul mondo, a partire da un punto di vista. Questa
parzialità, inevitabile, è insieme la ricchezza e il limite: una ricchezza perché abbiamo punti di vista singolari su uno stesso evento, e questo ci arricchisce; un limite perché nessun punto di vista può pretendere di essere assoluto.

Una buona notizia non è quella che dice “Signore e signori, ecco a voi finalmente la verità”, ma è quella che traduce anche nel modo di comunicare una premessa fondamentale che io chiamerei “il paradosso della buona notizia”, che è questo: non potremo mai possedere tutta la verità, ma non possiamo mai smettere di cercarla. Una buona notizia è quella che è consapevole di questo paradosso.

 

Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?

Io penso che possa, ma per farlo deve cambiare. Il giornalismo può aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità nella misura in cui i giornalisti e le testate accettano di svolgere un ruolo di sorveglianza e non di sudditanza rispetto ai poteri economici, politici, tecnocratici. Parresìa (dire anche ciò che é scomodo, disposti a pagarne il costo) e non ipocrisia (dire ciò che fa comodo per compiacere qualcuno e ottenere vantaggi).

La via dell’informazione è quella di essere al servizio non di se stessi o dei poteri forti, ma dei cittadini, soprattutto quelli che non hanno voce.

Un’altra condizione è non concentrarsi solo su un presente di breve respiro, ma coltivare sia la memoria sia il futuro, l’orizzonte delle nostre attese. La lettura del presente si deve dilatare al di là dell’istante, incorporando il passato (altrimenti gli errori si ripetono) e la speranza, l’orizzonte futuro. Un buon  giornalismo sviluppa e promuove uno sguardo intertemporale.

 

Qual è il suo contributo per una buona informazione?

Il contributo modestissimo che cerco di portare, da sociologa ma ancora prima da filosofa, è cercare di mostrare che ‘il vero è un interò, e perciò  c’è sempre dell’altro rispetto a ciò che appare, che riusciamo a far vedere e a raccontare.

Tenere il riferimento a una totalità, a una complessità che non può mai essere compresa da un unico sguardo e cercare sempre ciò che di questa complessità  non è immediatamente manifesto è per me fondamentale.

Altra cosa che mi sta a cuore è far emergere che ci sono sempre dei presupposti impliciti al nostro modo di
rappresentare la realtà. Presupposti che sono epistemologici, prima ancora che ideologici, cioè che riguardano proprio il nostro modo di pensare. Uno di questi è il dualismo, che alimenta un pensiero disgiuntivo, della
contrapposizione: per esempio, le relazioni faccia a faccia sono autentiche, quelle sulle piattaforme social no. Questi giorni di quarantena ci mostrano invece come la sinergia tra queste due dimensioni é non solo possibile, ma vitale. Il dualismo separa ciò che è unito e lo presenta come un’alternativa, con una parte buona e una cattiva. Questo però è un modo di banalizzare e impoverire la realtà che è sempre fatta di tensione fra aspetti apparentemente incompatibili, ma che di fatto coesistono. La sfida non è quella di eliminare un polo della tensione, ma di abitare questa tensione, questo paradosso, in modo creativo e umano.

Un altro modo di procedere e di presentare le notizie, spesso implicito ma che andrebbe mascherato, è quello della spazializzazione sulla temporalizzazione. Si tende a presentare le varie posizioni come se fossero una scacchiera dove posizionarsi, secondo la logica dello schieramento, del prendere una parte contro l’altra. Ma questa modalità è molto sterile, perché nella spazialità si vedono solo le distanze. Se si introduce invece la dimensione temporale si vede che la comunicazione, l’ascoltarsi, il comprendere le ragioni dell’altro e il ridurre le distanze può accadere solo nel tempo. Un’informazione che spazializza le posizioni anziché articolare anche la dimensione temporale alimenta solo il conflitto, in modo spesso irresponsabile.

 

Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?

Vuol dire innanzitutto vedere il bicchiere intero, prima di soffermarsi su una delle parti escludendo l’altra. Vuol dire considerare la parzialità in relazione, dentro un intero. Vuol dire vedere che il bicchiere è insieme pieno e vuoto, e che pieno e vuoto, così come tante altre tensioni che tendiamo a vedere come incompatibili, si richiamano a vicenda, anziché escludersi. Coesistono, si implicano reciprocamente, perché tutto è connesso.

Ancora una volta, dobbiamo imparare a riconoscere queste polarità: non pretendere di risolverle negandone una bensì fare in modo che questa tensione ineliminabile (la più radicale è quella fra la vita e la morte) possa diventare feconda. La tensione ‘abitata’ può essere fonte di un dinamismo positivo e vitale. La riduzione invece è sempre violenta e mortifera.


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